Onirico, pauroso, originale.
Con Profondo rosso (1975) Argento non sbagliò una nota, proprio come il pianista che conduce le fila di questo trauma fiabesco, rivolto in una chiave grottesca. Divenuto teste involontario di un delitto, al pari dello scrittore e del batterista che lo precedettero in altre pellicole argentiane, Mark (David Hemmings) cerca pericolosamente di fermare la mano che ha colpito e che tornerà a farlo. Nella convinzione tutta freudiana per cui le fondamenta più o meno fragili dell'uomo posano sempre nell'infanzia, la vicenda si sdoppia tra le indagini inevitabilmente futili di un commissario (Eros Pagni) che ha più fretta di mangiarsi un panino piuttosto che di chiudere il caso e quelle da completo autodidatta - e perciò più rischiose ma motivate - del vulnerabile protagonista. Al suo fianco c'è Gianna (Daria Nicolodi): femminista ambiziosa e sempre sul pezzo, la cui collaborazione con Mark diviene un gioco di sfida e di seduzione insieme, stemperando così un'atmosfera altrimenti da collasso. Infanzia, dunque. Cicatrici mai sanate che risalgono sino ad allora e che una sensitiva inavvertitamente riapre, durante una conferenza tenuta in un teatro. E' l'inizio del dramma calibrato sulle regole classiche di spazio, tempo e azione e preannunciato dallo stesso Argento al levarsi del sipario rigorosamente rosso che permette alla telecamera - e quindi a noi - di entrarci e di sederci in platea, democraticamente a fianco degli altri (assassino incluso). E' forte profondo rosso, brutale come le tonalità cromatiche che usa nell'allestire le scenografie, ma è formidabile nelle sue architetture gotiche e liberty e nei collage delle prospettive che scorrono da Torino a Roma. Questo lo spazio dedicato all'azione e che, a metà del film, si condensa tra le quattro mura di una scalcinata ma imponente Villa Scott: la suggestiva proprietà dietro la cui finestra murata c'è qualcosa o qualcuno che tiene in mano la chiave di tutto, tra silenzio ragnatele e polvere. E' in atto il surrealismo della fiaba infantile interrotta che è divenuta incubo e che assortisce casualmente e come se nulla fosse pupazzi ambulanti, bilie da gioco e coltelli alla rinfusa. Ed è proprio la genialità dell'indagine e della deduzione a stimolare e a rendere la trama insuperabile, convincendo lo spettatore a chiudere un occhio - in tutti i sensi - sull'abuso di sangue che Argento solitamente - e anche qui - si concede e che qui, più che mai, fa pendant con il titolo. Il pregio migliore, probabilmente, lo si coglie in un macabro che non è mai volgare e che possiede, al contrario, l'eleganza di uno stile impressionista. La villa liberty, l'arredamento rococò di Giordani, il loft bohemién di Mark, il Blue Bar ispirato a Nighthawks di Edward Hopperbar dove l'enigmatico Carlo (Gabriele Lavia) strimpella e si ubriaca fradicio ogni sera. Tutto è assoluto protagonista quanto l'uomo: gli oggetti, il paesaggio, le gole dei lavabi e persino il suono, la nenia ripetuta, che funge da allarme, colonna sonora ed indizio rivelatore allo stesso tempo. Con una buona dose di coraggio, si può davvero apprezzare un horror che, prima di essere tale, è un solido giallo a tutti gli effetti.
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dai sparane una più grossa