Possibili Spoilers!
Funny Games è senza dubbio una provocazione travestita dal pervertimento della parola gioco e non è mistero che Michael Haneke, in qualche modo, gongoli su questo. Ma come tutti i film di matrice europea, tralascia la trama in favore del simbolismo. Non aspettatevi, perciò, una pellicola all’americana – per quanto la location sia Long Island e vi sia promessa di violenza a volontà – perché mancherà di azione e si costruirà prettamente sul fastidio, sulla snervanza e sull’agonia dei dialoghi e dell’attesa. Una mano statunitense sarebbe stata molto più grafica, forse, e meno cinica. Qui, invece, la rappresentazione compiaciuta dell’insospettabilità del male prevale nettamente sul cliché – altrimenti stereotipato – della vittima che pensa solo a mettersi in salvo. Gentili sono a tratti i modi della lucida follia ed i volti dietro ai quali si cela, candide sono le vesti degli psicolabili, le cui mani nemmeno s’imbrattano per ciò che fanno grazie ai guanti da golf – anch’essi bianchissimi – con i quali mettono in atto le loro malefatte. E’ una denuncia dell’ipocrisia, della deriva sociale e della conseguente vuotezza di alcune esistenze? E' un avvertimento sui mille volti, talora incomprensibili, della violenza che può bussare alla porta delle vite di tutti e che solo un cane è in grado di percepire in tempo? E', per caso, una comica a rovescio dove vincono i cattivi e perdono i buoni? E' uno scimmiottare i costumi americani, nei quali troppo spesso la cattiveria è protagonista assai disinibita? O è, infine, una durissima polemica contro l'esclusivismo dei circoli golfistici, apparentemente sempre così snob ed elitari? E’ forse un po’ di tutto questo, nella sua interazione e presa in giro degli spettatori. Non sono, tuttavia, il delitto e le scene raccapriccianti a riempire il campo della macchina da presa, né la capacità di reazione dei malcapitati – altrimenti avremmo l’ennesimo thriller - bensì il dolore psicologico dell’aggressione futile, demenziale e fine a se stessa che è già raccapricciante di per sé; e l’amara consapevolezza che i crudeli trionferanno, per quanto ciò sia ingiusto. Ci vuole coraggio ad eliminare, seppure fuori scena, l’innocenza di un bambino. Pochi film si erano spinti a tanto. Perché F. G. lo fa? Perché lo scopo di produrre in noi una riflessione a proposito della fragilità della vita e della stupidità della degenerazione, ma anche sull’ordinarietà vacanziera di una classe borghese ed arricchita con la puzza sotto al naso prevale sull’intrattenimento dello spettatore e sulla sovrabbondanza d’effetti speciali. Infatti, c’è chi – pur di recuperare la sensazione vendicativa e liberatrice volutamente assente nel film - giunge persino a colpevolizzare la famigliola, rea d’essere troppo autistica e chiusa nel proprio guscio del benessere: quello stesso guscio d’uovo che i dissociati romperanno all’inizio del “gioco”, generando una vera e propria metafora dell’intrusione distruttiva del cavallo di Troia. Associate pure Peter e Paul ai drughi di kubrickiana memoria o paragonateli, come certa critica ha fatto, alla coppietta di uno Stanlio e di un Ollio che hanno perduto la testa e che fanno rabbrividire anziché ridere, ma cercate di comprendere che il film ha altre esigenze rispetto a quelle ormai desuete dell’avanspettacolo. Così, ogni possibilità di fuga è messa al bando, poiché scontato è il destino e dei sequestrati e dei sequestratori. Ed il finale, con la sua ciclicità impotente e ininterrotta, n’è riprova.
Lo scherzetto in rewind
Perfetto il cast. Straordinario Michael Pitt, vero e proprio angelo luciferino dallo sguardo sornione. Se continuerà di buon grado a dar vita a personaggi "disturbati" e disturbanti sarà tutt'altro che "funny" per lui tentare strade diverse in futuro. Che dire? Non azzardatevi più a prestare uova ai c.d. "vicini" ed eviterete di stare al loro gioco ... ;)
Trailer italiano
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dai sparane una più grossa