E' davvero emozionante leggere ciò che Umberto Eco scrisse nella postilla de Il Nome della Rosa su ciò che significa scrivere e sul perché i lettori siano attratti come magneti dalle storie giallo-poliziesche. Era il 1980.
"Dopo aver letto il manoscritto, gli amici della casa editrice mi suggerirono di
accorciare le prime cento pagine, che trovavano molto impegnative e faticose. Non
ebbi dubbi, rifiutai, perché, sostenevo, se qualcuno voleva entrare nell'abbazia e
viverci sette giorni, doveva accettarne il ritmo. Se non ci riusciva, non sarebbe mai
riuscito a leggere tutto il libro. Quindi, funzione penitenziale, iniziatoria, delle prime
cento pagine, e a chi non piace peggio per lui, rimane alle falde della collina.
Entrare in un romanzo è come fare un'escursione in montagna: occorre imparare un
respiro, prendere un passo, altrimenti ci si ferma subito. [...] Un grande romanzo è quello in cui l'autore sa sempre a che punto accelerare,
frenare e come dosare questi colpi di pedale nel quadro di un ritmo di fondo che
rimane costante."
E ancora:
"Io credo che alla gente piacciano i gialli non perché ci sono i morti ammazzati, né perché vi si celebra il trionfo dell'ordine finale (intellettuale, sociale, legale e morale) sul disordine della colpa. È che il romanzo poliziesco rappresenta una storia di congettura, allo stato puro. Ma anche una diagnosi medica, una ricerca scientifica, anche una interrogazione metafisica sono casi di congettura. In fondo la domanda base della filosofia (come quella della psicoanalisi) è la stessa del romanzo poliziesco: di chi è la colpa? Per saperlo (per credere di saperlo) bisogna congetturare che tutti i fatti abbiano una logica, la logica che ha imposto loro il colpevole. Ogni storia di indagine e di congettura ci racconta qualcosa presso a cui abitiamo da sempre (citazione pseudo-heideggeriana). A questo punto è chiaro perché la mia storia di base (chi è l'assassino?) si dirama in tante altre storie, tutte
storie di altre congetture, tutte intorno alla struttura della congettura in quanto tale.
congettura in quanto tale."
Grazie caro Umberto per aver espresso il mio esatto pensiero con parole la cui esattezza non avrei altrimenti saputo trovare. Meriteresti un premio. Ti regalo una rosa.
(Scherzavo).
In effetti i gialli vanno letti per il modo in cui ti prendono e ti coinvolgono, per il livello di pensiero che ti costringono ad utilizzare. Non che i morti ammazzati siano davvero secondari (nelle regole del giallo classico quasi tutti si trovavano d'accordo sul fatto che l'omicidio è il crimine "minimo" su cui vale la pena di pedere tempo e fatica), ma il fatto è che i morti ammazzati da soli sicuramente non bastano. Ci vuole ben altro per fare un bel giallo! e infatti tra i numerosissimi libri pubblicati attualmente e desiderosi di fregiarsi del titolo, solo in percentuale minima lo meritano davvero.
RispondiEliminaIn quanto alla presunta lentezza de IL NOME DELLA ROSA, mi trovo assolutamente concorde con Umberto Eco: l'Abbazia va vissuta dal lettore come se lui stesso ci abitasse assieme ai monaci. Solo così il romanzo lo si può non solo apprezzare, ma capire davvero a fondo.
Trovo che una certa lentezza fosse imposta non solo dall'ambientazione spaziale ma anche da quella temporale. Prendiamo il Manzoni, dal quale Eco mutua apertamente lo stratagemma del manoscritto ritrovato. Lo stile de I PROMESSI SPOSI doveva essere manieroso e barocco, data la collocazione della vicenda nel XVII sec.
RispondiEliminaDevo dire che - probabilmente sbagliando - mi sono sempre rifiutato di accorciare o tagliare i miei romanzi su richiesta delle case editrici, proprio per la difficoltà nel rimaneggiare le coordinate tempo-azione che in un giallo sono particolarmente delicate, sicuramente più della conta dei cadaveri. Per lo stesso motivo, alcune volte ho rinunciato a partecipare ad alcuni concorsi letterari che imponevano il limite delle cartelle (o righe) oltre le quali non si doveva eccedere. Credo che simili imposizioni possano essere congeniali ad uno scrittore di teatro, a sceneggiatori o ad autori televisivi tenuti, per la natura del loro impegno, a mantenere i c.d. tempi tecnici. Ma un romanziere o aspirante tale difficilmente riesce a fare i conti con una "barriera architettonica" quale può essere il limite delle parole. Il sacrificio di ciò che si vorrebbe esprimere e la rinuncia di una idea per un'altra è già imposta dall'economia della verosimiglianza della storia che stai narrando e della stesura che un'ulteriore taglio risulterebbe davvero difficile da accettare.